Perché “piangiamo solo le città di cui abbiamo un souvenir attaccato sul frigo”, come si è chiesto Maurizio Crozza al programma Dimartedì su La7? Ecco cinque motivi psicologici.

La copertina di Crozza su Dimartedì (La7) del 19 Novembre
L’attentato avvenuto a Parigi il 13 Novembre ha commosso tutto il mondo Occidentale. Ma c’è chi – giustamente – si è chiesto come mai non piangiamo i morti degli altri recenti attentati, come quello avvenuto due giorni prima in Beirut. Tra tutti coloro che hanno pensato che questo atteggiamento fosse “classista” (se non perfino razzista), troviamo Maurizio Crozza, comico italiano che si è chiesto quanto debbano essere vicine a noi le tragedie per farci provare solidarietà.
La domanda non è sciocca, ma pochi si stanno soffermando a ragionare sulla risposta. Molti rispondono che il problema è la nostra insensibilità a ciò che è distante, mentre chi non si scandalizza di questa “preferenza”, che vede Parigi più importante del Beirut, ribatte che sono molte di più le connessioni relazionali che ciascuno di noi ha con Parigi e la Francia, rispetto agli altri luoghi della terra.
Nessuno ha davvero torto, ma prese isolatamente queste risposte non sono affatto esaustive.
Da psicologa, mi sono chiesta cosa sia passato nella mente delle persone non implicate dopo i due attentati (ce ne sono stati molti altri, ma negli ultimi giorni si insiste su Parigi e Beirut perché avvenuti a un solo giorno di distanza l’un l’altro). Tralasciando chi ha perso davvero qualcuno nell’una o nell’altra situazione, ho delineato cinque punti per cui tutti noi Occidentali ci siamo sentiti più coinvolti quando la tragedia è avvenuta più vicino ai nostri Stati.
Riassumendo, la risposta alla domanda “perché ci ha colpito di più la tragedia a Parigi che non quella del Beirut?“del titolo è questa: perché più la nostra identità è vicina a quella delle vittime, maggiore è il coinvolgimento emotivo che proviamo.
Il dolore per i morti, in questo caso, si genera soprattutto perché abbiamo paura per la nostra sopravvivenza. Mentre piangiamo per Parigi e coloriamo la nostra immagine profilo di Facebook dei colori della bandiera francese, il nostro cervello stima la probabilità del rischio che abbiamo corso vivendo vicino all’attentato e condividendone i valori che hanno spinto gli attentatori ad attaccare. La nostra cognizione trasforma poi la paura in tristezza, in modo che non intacchi l’idea non-egoistica che ci siamo fatti di noi stessi.
Ciò non giustifica assolutamente la minore o assente mancanza di empatia nei confronti delle vittime non-parigine, anzi: ci deve spingere a comprendere quella profonda e istintiva parte di noi, comandata dagli strati più profondi del cervello, e quindi giudicarla consapevolmente.
Di fronte alle tragedie, la nostra mente gioca al gioco del “come se” di quando eravamo bambini: “cosa sarebbe successo se… (mi fossi trovato in zona, avessi assistito a quel concerto, avessi avuto una vittima tra gli amici, ecc.)?”. Se la risposta mentale è “sarei morto”, la paura prenderà il sopravvento ma, siccome non si è stati colpiti direttamente, verrà trasformata in una più costruttiva e socialmente accettata compassione.
A livello cognitivo accetto che il mio dolore sia fratello della paura, ma nel momento in cui riconosco che anche le persone accanto alle vittime del Beirut hanno dei processi mentali simili ai miei, e che quindi piangono le persone che con più alta probabilità potevano essere loro stessi, sarò portato a provare compassione anche per loro (perché saranno visti come “più vicini a me”) e, di rimando, per i loro cari.
Annalisa Viola
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